Tornavo a casa sfrecciando sul mio cinquino statiowagon.
Patrizia è un bolide mancato che sa di esserlo e si frustra.
Una macchina che sa il fatto suo, dalle poche pretese, che sa dove arrivare, anche se spesso ad arrivare non ce la fa.
E’ arrivata per i miei 18, scovata dopo lunghe ricerche nel convento di S. Caterina, sulla Flaminia; rimessa a punto completamente dopo una lunga attesa per dei pezzi di ricambio che dovevano arrivare dalla Germania.
Manco da Termini Imerese.
Dalla Germania.
Passano due mesi e due milioni delle vecchie lire, e finalmente eccola, in tutto il suo atavico splendore: una cinquecento deforme, con gli sportelli ad apertura in controvento, specchietti retrovisori alla Topolino, portabagagli a dispensa, ruote parzialmente convergenti, targa anni ‘50, sospensioni inesistenti, sedili in spessa plastica bianca e azzurra, frizione a 40 centimetri dal tappetino, accensione sul cruscotto, capote e cambio shimano. 
Le marce delle macchine antiche hanno bisogno della doppietta.
Patrizia è esigente.
Ha bisogno della quadrupletta.
Ora. Io non ho nulla contro le suore, anzi. Le stimo. Le donne che non trombano oggi sono rare, una specie da salvaguardare.
Un po’ come i panda.
Ma non c’è niente di peggio che vedere una timorata di dio che si improvvisa commerciante, che contratta per un bene materiale, che sfrutta, bastarda, il suo stucchevole buonismo a scopo di lucro.
Suor Cosetta, saputo di un possibile acquirente, si era precipitata da Roma a Palermo insieme alla sua bella macchinina ormai in fin di vita. Voleva conoscermi di persona.
Eh?
Non avevo mai parlato con una suora.
Mi avrebbe sgamata al volo. Avrebbe guardato i miei occhi ispessiti da centimetri di kajal e capito che facevo sesso, mi fumavo le canne e dicevo parolacce.
Puzzava di gambaletti vecchi e canfora. La sua perenne espressione da Madonna dell’annunciazione di Lotto era un’orticaria insopportabile.
Signorina, facciamo un giro in macchina. Patrizia è molto fragile. Ha bisogno di tanta cura nella guida. La prego di non correre troppo”.
Sorella, ma mi prende per il culo? ‘Sto catorcio arriva a 40 solo in discesa e col vento a favore e lei sfotte pure?
Certo, si figuri se corro. Mi dice perchè questa macchina ha questo nome così cazzone?”
Omelie su omelie che auspicano ad un amore spirituale castigando qualsiasi ricchezza terrena e poi ‘sta tipa mi viene a dare il nome ad una macchina.
Se questo non è feticismo..
Perché Patrizia è un nome aulico, gentile e cristiano. Lo saprà bene lei, che porta il nome della Santa più importante d’Italia, nonché di colei a cui è intitolato il mio convento”.
Già.
Ma vedi un po’ che culo.
Ah, quasi dimenticavo. E’ un dettaglio, una vera bazzecola, ma è giusto che glielo dica. Patrizia non tiene il minimo. Ha bisogno di una batteria nuova. Oppure può anche mettere questa qui in carica tutta la notte, se sa che dovrà usarla il giorno dopo”.
E io che mi ero preoccupata che non avesse l’aria condizionata, quando qui avrei dovuto programmare di andare a comprare le sigarette un giorno prima di finirle.

Tornavo a casa sfrecciando sul mio cinquino statiowagon.
Era la mia giornata fortunata.
Andavo a 30.
Un cazzone superiore spunta all’improvviso in retromarcia da una stradina che fino ad un attimo prima non esisteva. Era arrivato il momento migliore della mia giornata, l’occasione che aspettavo da già troppi chilometri, la possibilità di fare una delle due cose che gli uomini ci invidiano, la prerogativa stradale femminile per eccellenza.
Era arrivato il momento del clacson.
Di contribuire all’inquinamento acustico nel mondo. Il battito delle ali di una farfalla può riverberare nell’altro emisfero?
Io mi sarei fatta  sentire da ogni anima fino all’ultimo girone.
In realtà, oltre il mio furore femminista delirante, non avrei mai permesso a quella moto ape di costringermi a frenare. Frenare avrebbe significato scalare di marcia, per ben tre volte. Tre quadruplette mi avrebbero costretta ad un pesantissimo gioco frizione-acceleratore in grado di lacerarmi il menisco e irrobustirmi il polpaccio. Una fatica esagerata.
Il tipo frena all’improvviso. La sua Ape ha il singhiozzo. Tra me e lui c’è un pelo che basta per non ricontattare la Germania.
Tutto questo senza aver rallentato minimamente.
Brava, Patrizia.
Che orgoglio Patrizia.
Mi fermo ad uno stop il tempo che basta per ripiegarmi su me stessa dopo aver sentito il suono improvviso di una frenata stridula. Mi volto verso destra e mi ritrovo il faccione dell’essere mitologico che mi ha parzialmente tagliato la strada. Paonazzo, abbassa il finestrino con un movimento convulso dalla clavicola e l’avambraccio, come se quella maniglia fosse quella di un pozzo in ferro. Probabilmente in preda ad un’ernia da sforzo, si fa vedere in tutta la sua prestanza: collo taurino con bassorilievi di vene ingrossate e arrossate, capelli colpisolati con riga in mezzo luccicosi di gelatina, canotta bianca strappata sulle maniche e occhiali della dimensione di un passamontagna.
Sembrava uscito da Mary per sempre.
Non proprio un bel vedere.
Non riesco a non continuare a fissarlo estasiata, prima che il suo
OOOUUU” mi riporti alla realtà.
Non tutti forse sanno che, nel contesto di uno screzio stradale palermitano, se uno dei coinvolti inizia ad inveire contro l’altro urlando un dittongo qualsiasi, la giornata di quest’ altro potrebbe non essere delle migliori.
Ma lei dice vero che corre accussì con quella macchinaaa?”.
Grugnito finale.
Ma come no, testa di cazzo? L’ho appena fatto, non vedi? Se non sai nemmeno fare retromarcia, comprati due specchietti retrovisori grossi quanto il tuo faccione idrocefalo.
Ma come no, signore caro? Non sa che se lei esce da un parcheggio o da una strada secondaria la precedenza è assolutamente mia?”, e sì che te l’ho messa in culo, brutto stronzo pappone, gli rispondo accompagnando il tutto con un movimento così lento nell’abbassare il mio finestrino da ucciderlo di tranquillità strafottente.
Patrizia nel frattempo aveva ben deciso di spegnersi per la troppa emozione.
Vado per rimettere in moto e mi accorgo che Minotauro dai capelli piscio sta sbirciando nel mio scaldacuore, sporgendosi con metà busto fuori il finestrino e abbassando viscidamente il passamontagna –era arrivato il momento di pregare fervidamente che un santo in motorino passasse tra noi due e gli tranciasse di netto la capoccia.
Miiiii, ma sei bellissimaaaaaa”.
Non era il fatto che mi avesse guardato le tette. Credo fosse stato quel brusco passaggio dal lei al tu ad infastidirmi.
Abbiamo fatto il liceo insieme?”
Non capisce. Non coglie. Non sa nemmeno cosa sia un liceo. Già a 12 anni girava a petto nudo per il quartiere intraprendendo precocemente la carriera di venditore ambulante di cacuoccioli, e ora stava allungando la mano fuori il suo finestrino per appoggiarsi al mio sportello, come se volesse avvicinare la mia macchina alla sua, come si fa con una sedia, e quanto sarebbe bello se qualcuno fermo da chissà quanto dietro di noi suonasse e gli ricordasse che non si può  stare fermi ad uno stop. Per la prima volta desidero ardentemente il traffico. Ma non c’è nessuno. Potrebbe anche andare bene quel motorino. Ma alle 13.50 di oggi, per la prima volta nella storia di Palermo, non c’è un’anima. E allora mi rincuoro quando penso che adesso ingranerò la prima e me ne andrò fulminea spaventandolo con una sgommata alla Starsky che gli farà mangiare l’asfalto liofilizzato, e lui rimarrà a tossire fino a che quel suo enorme faccione non esploderà di ciccia e idrocarburi, e sì che soffrirà, dietro un polverone così fitto che non potrà vedere la direzione in cui sarò già andata, per restare lì, deluso dai suoi metodi d’abbordaggio, mortificato nel profondo. In preda allo sconforto e ferito nel virile, forse ricorderà le mie ultime parole, tornerà a casa, cercherà su qualche dizionario d’appendice di un logoro libretto di grammatica delle scuole elementari cosa sia un liceo, e un giorno potrebbe anche aver voglia di farlo, il liceo. E allora io avrò istruito un uomo, l’avrò reso un potenziale colto del nostro tempo, una colonna importante del sistema, erudita e cosciente, che inizierà la sua scalata sociale in cerca di una professione dignitosa pari alla sua cultura. Avrò inconsapevolmente redento un venditore di cacuoccioli e lui sempre mi avrebbe ricordata come la donna che un giorno lontano gli aveva aperto un nuovo mondo e ispirato una nuova vita. Sarei diventata l’aneddoto più vivace e colorito da raccontare ai figli, e poi ai nipoti.
Qualche volta nel mondo capita che vinca il bene e l’onestà l’abbia vinta su tutto.
Sì, non poteva non andare così.

Minchia, signorina.. Non le parte più la macchina?”