Il locale in cui mi trovo, occupando svogliatamente lo sgabello con la seduta più scomoda della storia degli sgabelli, si trova su una delle arterie pro della città, dove si concentra la borghesia lavorativa e commerciale della Palermo che conta –in genere, i soldi che ha. Avvocati, medici, commercianti, imprenditori, valvassori e valvassini. E di cose da fare e soldi da contare, questa Palermo qui ne ha a iosa. È dunque giusto, quasi obbligato, che la sera, dopo aver fatto e contato tanto, si ritrovi a mangiare sushi in un posto così di una zona così per un giorno così. Dentro camicie stirate con un tocco indubbiamente filippino e rigorosamente coperte da stretch pull con scollo a V siamo tutti stanchi, ma più belli. Soprattutto se oggi è San Valentino. Che sia chiaro: noi a San Valentino non crediamo e dato che non ci crediamo usciamo a far bisboccia per ricordarci che single è meglio che impegnato. O sposato. O fidanzato ufficialmente. O in una relazione complicata. San Valentino non esiste, ma l’antisanvalentino ci piace. Tanto che, per sì e per no, stasera abbiamo tutti indugiato casualmente un po’ di più nel nostro Acqua di Giò –sai mai che nella generale ostentazione di un’euforia autoindotta si incontri quell’irriducibile e romantica squinzia così disperatamente priva del suo valentino da ritenere sufficiente un bicchiere di buon vino cavallerescamente offerto accompagnato da sprazzi di scambi allusivi e uno schizzo di occhio languido, oltre che da noccioline.

Entro, e niente mi sorprende. Sapevo già tutto all’ingresso, a partire dai grossi vasi bianchi e illuminati dall’interno che non fanno neanche finta di contenere mai alcuna pianta, vera o sintetica non importa. E non mi aspettavo certo di trovarci dentro Montmartre, entrare e passare la serata a disquisire amabilmente dell’apporto Dada alle correnti avanguardistiche del Novecento. O delle insidie della grammatica italiana. O dell’Io sociale contro l’Io individuale oggi: rapporto, scontro e distinzioni nell’epoca moderna. Questo no. Il locale in sé contribuisce a sconfortare velocemente ogni speranza, se mai stasera ne ho avuta una, di imbattermi in personaggi poco più diversi da un clichè. Design con assurde velleità nordeuropee (e andrebbero pure bene, se i cumuli di spazzatura sulla strada su cui ho guidato fin qui non ricordassero che milioni di anni e tettoniche delle placche eppure siamo sempre più vicini all’Africa che al resto); luci soffuse per un  immediato effetto antiruga ma seguíto da tragiche ripercussioni sulla retina; nero e bianco unici colori in tutto il locale (sono neri e bianchi soffitto, pavimentazione, pareti, angolo bar, sushi, camerieri); bancone sushi all’ingresso, degno avvertimento per gli utenti in stile Lasciate ogni finanza, voi che entrate. Alle spalle di mini silos traboccanti di alghe e pesce crudo, figuri poco nipponici –felici ancora meno– fanno polpette di riso con le mani e senza guanti; poco più avanti, orchestrina minimale (ché altrimenti non sapevamo proprio dove metterla) suona un jazz di cui si potrebbe fare a meno e a un volume esagerato –ma nel corso della serata mi ricredo e la ringrazio, perché di fronte le puttanate di qualcuno posso scusarmi e fare finta di non averle sentite bene.

Ma partiamo dall’inizio. In principio era l’invito di un’amica a un aperitivo con una combriccola di suoi conoscenti single, quindi stasera presumibilmente allegrotti sul deficiente andante. Della cricca fa parte un tizio su cui lei ha puntato gli occhi, è questa la notizia. Forse stasera ci sarà, quindi mi accompagni se non hai niente di meglio da fare? Accompagnarla mi sembra un dovere morale. Ho niente di meglio da fare? Fare uno sfregio al mio ragazzo –che oggi ha pranzato insieme alla sua ex storica*– mi sembra un dovere religioso. Dico No, andiamoci.

Spazzatura sulla strada, vasi bianchi all’ingresso, bancone sushi a sinistra, orchestrina jazz a destra, e in fondo i suoi amici che io non ho mai visto, ma so chiaramente che sono i suoi amici. Si tratta di una mezza dozzina di uomini all’incirca quarantenni, alcuni seduti, altri in piedi, intorno un tavolo in vetro su cui campeggiano bottiglie di vino ancora tappate dentro cestelli con ghiaccio. Nessuno di loro sta guardando nessun altro, sta parlando con qualcun altro, sta cagando qualcos’altro. Sono tutti –tutti– con la faccia china sui loro iPhone che io non ho ancora visto, ma so chiaramente che sono iPhone. Come animati da una sincronia trascendente, all’improvviso buttano tutti quanti indietro le teste e scoppiano a ridere, questa volta guardandosi. Qualcuno dice qualcosa, altri sembrano confermare, tutti continuano a ridere ma, forse per la stessa sincronia trascendente di prima, all’improvviso smettono e tornano su una pagina di facebook che io non ho ancora visto, ma so chiaramente che è facebook. Pochi istanti e via: teste indietro, grasse risate, qualche goliardica calunnia e altro giro altra corsa, di nuovo sotto a smanettare sui display. Conoscendomi, li sto guardando come guarderei il tentativo di accoppiamento tra una zebra e un armadillo su NatGeo. 
Ma che bella serata mi attende. Ci avviciniamo, io mi butto addosso secchi di cordialità ma non sono sicura che sulla mia faccia non ci sia qualcosa di vagamente somigliante a uno yogurt tenuto al sole da tre giorni. Ciao dalla mia amica, Ciao corale da loro, Lei è Caterina, Ciao da me –e quelli sono tutti iPhone–, avvicinamenti per presentazioni con strette di mano, sorrido io, sorridono loro, sorridiamo tutti, butto un rapido sguardo giù –e quelle sono tutte pagine di facebook. Finiamo le presentazioni e, solo ora che è arrivata gnocca, intascano finalmente i cellulari. Ognuna di queste persone tocca almeno il gomito dell’altro, eppure poco prima stavano tutti comunicando attraverso bacheche e commenti. Le mie attese forse erano sbagliate, perché stasera un po’ di surrealismo in effetti c’è, anche se poco avanguardistico probabilmente. 
Quello che segue non riesce a fuoriuscire dalle tristi frontiere della repubblica di amarezza, confinante a nord con lo stato di prevedibilità: sonori stappi di vino con biascicati prosit per i single in un italiano molto poco italiano (e il solito, incredulo “Ma che vuol dire astemia?”), motti di spirito molto poco di spirito, ostentazioni di allegria molto poco allegra e, ovviamente, tentativi di approccio molto poco riusciti, per una corsa verso un finale estremamente commovente in cui i baccanali di una sera lasciano il posto alle facce tristi di chi andrà in bianco anche stavolta e non gli basta essere ubriaco per fingere di non saperlo.
 Non riesco a evitare un pensiero editoriale: qualcuno ha mai pensato di scrivere un manuale per i quarantenni? Un libercolo con rapidi consigli per evitare agli uomini certe imbarazzanti e irreversibili figure di merda degne di un ragazzino acneico, esiste? Sorrido. Se non esiste, lo scrivo io –dopo una serata così le idee tracimano, per alcune ho già in mente simpatiche illustrazioni e sagaci didascalie!
(Caro uomo che ho appena conosciuto per caso –o forse più per espiare chissà quale atavica colpa:

  • Se ci stiamo presentando, darti la mano mi sembra più che sufficiente. Evitiamo di baciarci subito e scambiarci tanti microbi e batteri, dai.
  • Se ci siamo conosciuti due minuti fa, tu non provi a mettermi un braccio intorno al collo. Mai.
  • Se ti dico che sono astemia, non guardarmi come se avessi detto lebbrosa: scommettiamo che a fine serata starò meglio di te?)

Non riesco a evitare un pensiero legislativo: qualcuno ha mai pensato di rendere obbligatorio l’eventuale libercolo di cui sopra? Una legge che costringa ogni uomo a fare l’uomo, altrimenti la galera. Art. 739 comma 2: è severamente vietato a qualsiasi cittadino italiano di sesso maschile compiere 40 anni prima di aver letto il manuale “Guida a un comportamento degno di un quarantenne”. Sorrido. Se non esiste, propongo un referendum io.

“Perché sorridi?” mi chiede qualcuno il cui nome sono orgogliosa di non ricordare. “Mi è venuta un’idea”. Lui alza le sopracciglia furbette e sgancia un sorrisetto da vecchia volpe.

(Caro uomo che riusciresti a sentirti unico al mondo pure in un centro commerciale la domenica pomeriggio:

  • Se ti ho finalmente degnato di una frase dopo che non mi ti sono filata per tutta la sera, quante possibilità ci sono che la cosa ti riguardi?
  • Se ti dico che non mangio sushi, tu non provi a fare l’aeroplanino con le bacchette verso la mia bocca.
  • Se fai l’aeroplanino con le bacchette verso la mia bocca e io la serro guardandoti come guarderei il tentativo di accoppiamento tra una zebra e un armadillo su NatGeo, tu non ti sorprendi, né ci resti male.
  • Se io non te l’ho mai chiesto, non tirarmi una pippa di apologia dell’inverosimiglianza con un peana su come in genere conquisti le donne.

Soprattutto

  • Se io e la mia amica siamo le uniche donne presenti, anche se a fine serata ci raggiunge il compagno** di una delle due, non è mica carino offrire la cena solo a quella delle due che è ormai chiaro sia l’unica single.
  • Se comunque a questo punto è ovvio che tu non sia né mica né carino, non chiedermi di mettere quaranta euro quando io ho preso un’insalata e una mezza naturale, mentre tu e i tuoi amici barili di sushi e due fontane di vino.
  • Se ti chiedo “Quaranta euro non è un po’ tanto?” e tu mi rispondi “Sì, ma ne vale la pena anche se costa tanto perché io qui sto bene e mangio sushi buono”, io ti rispondo “Appunto. Tu, io no”. E subito dopo magari corri in chiesa e accendi un lumino alla santa protettrice della decenza pregandola di tornare a vegliare su di te).

 

 

 

 

 

 

 

*Sarà stato per lui, o per lei, o per un pranzo caduto casualmente a San Valentino in cui ho letto un simbolismo cospiratorio, ma non ho preso la cosa molto bene, ammettiamolo.

**Che vuole fare ammenda