Gli dico Allora, adesso entriamo in quella chiesetta del ‘600 e ci facciamo una bella dose di barocco siciliano. Fa’ il bravo, non dare confidenza ai preti ché poi tornano in cappella e si smanettano pensando alle focature del tuo pelo fulvo. Sta’ lontano da qualsiasi cosa somigli anche solo vagamente ad un angolino, ché poi mi tocca pulire il sagrato e non c’ho voglia. Vedi di pisciare fuori dal seminato, per favore. E sorridi, il barocco ti piacerà. Lui mi guarda scodinzolando energicamente. Poi rallenta. Infine smette. A me il barocco fa venire l’ansia. Appunto. Vuol dire che funziona. Storce leggermente il muso verso destra, rimette la testa a posto e fa crucciato Non sei troppo sconcia per entrare in una chiesa? Il suo musetto schiacciato indica il cartellone appeso all’inferriata del portico. Severamente vietato entrare in chiesa con pancia scoperta, minigonna e pantaloncini. Appunto. Non c’è scritto tette al vento. E poi lasciatelo dire. Sei pedante. Lui si stende a terra come un tappetino e sbuffa sotto le vibrisse. Loro sottoscrivono un comandamento in cui è severamente vietato commettere atti impuri, poi si inculano gli undicenni e io dovrei farmi scrupoli per una stupida scollatura? Ho 30 anni e sono una femmina, quindi del tutto inoffensiva. Tu piuttosto. Vai in giro con le grazie in bella mostra e sempre pronto all’erezione. Vergognati. Sarà, fa lui spazientito. Entriamo. Interno molto sciatto, fatto di un barocco nell’insieme assopito, qualcuno avrà detto allo scultore di risparmiare sullo stucco perché tanto i fedeli erano fedeli abbastanza.

Dentro è vuoto, fatta eccezione per quel lezzo di incenso che riuscirebbe a convertire anche i beduini. Guarda quel puttino tutto aggettante. Non è carino? Lui poggia il culo a terra e sbadiglia sguaiato. Quello non è un puttino. È un nano con l’esoftalmo, evidentemente ipertiroideo e con le alette rattrappite. Esoftalmico lui? E tu che sei un pechinese con gli occhi di un polpo e il muso introflesso di uno appena incidentato? Sai cosa sei? Sei un esserino pieno di conflitti interiori. L’invidia ti divora. Certo, sono invidioso di un putto con la testa che spunta da una lesena e il culo presumibilmente murato. Oh, attenta. Arriva un prete. Scodinzola. Che cazzo scodinzoli ai preti?

Scusi, ma i cani qui non possono entrare.

Cani? Quali cani? Faccia vaga. Cani come quello lì, mi dice indicando.

Oh, ma lui non è il mio cane. È solo il mio amico immaginario. Dato che lo vede anche lei, se vuole da ora può essere anche il suo. Sorrido amabilmente. Il prete guarda me con condiscendenza e le possibili vie di fuga con interesse. Capisco, ma vede. Questa è una chiesa, è un posto consacrato. Ha un colorito itterico e le mani giunte all’altezza dell’inguine. Lo so, gli rispondo, ma anche il mio amico è piuttosto consacrato dalle sue parti. Su, non facciamo xenofobia, ad ognuno il suo. Questa è la casa del suo signore, che xenofobo non lo è per natura e dicerie. Il mio signore? Non è anche il suo?, aggrotta le sopracciglia per curiosità chiaramente provocatoria. Ma non cederò. Ora gli stringo la mano e me ne vado contenta. Non dargli corda. Saluta educatamente e andiamo, mi bisbiglia lui saggiamente. Ha smesso di scodinzolare.

Vede, servirebbero ore, io ero venuta qui soltanto per fare vedere al mio amico un po’ di barocco. Non ho proprio tempo, mi dispiace. Arrivederla, padre. Faccio dietrofront sulla stessa navata da cui sono arrivata e sento dire al prete con voce più grossa di poco prima Ma se questo non è il suo Dio, perché mi chiama padre? Beh, perché è così che vi chiamano, no? Padri. Perché siete i padri dei vostri fedeli, che voi chiamate figli. Ok, ora basta. Risaluta e andiamo.

No, aspetta. ‘Sto Neo tamarro… E appunto, lascialo stare alla sua santa Trinity.

D’altronde, nella parte del padre, è molto più facile far passare tutto per una colpa che voi e solo voi potete perdonare. È lavoro. Il perdono vi dà il pane.

Proprio non ce la fai a chiudere quella bocca. Mi scappa, su andiamo. No aspetta, deve capire. Ma capire cosa? Andiamo, altrimenti gliela faccio sull’inginocchiatoio. Come ha detto? Nulla, parlavo col mio amico. Ne ha molti di amici immaginari? Come lui, dice? Sì, come quello lì. Oh, mi ha chiamato di nuovo quello lì. Fagli il culo. No, lui è quello scarso. Per fortuna gli altri sono alti e gnocchi. Capisco. Vuole venire a fare due chiacchiere con me? Non le stiamo già facendo? Certo, però in un posto più tranquillo sarebbe meglio. Più tranquillo di una chiesa vuota c’è solo la tomba, con la differenza che lì non c’è modo di saperlo e il paragone è a senso unico. È un problema di coscienza e la mia sta a posto, vada tranquillo. Non volevo parlare della sua coscienza, mia cara. Solo di ciò che prima ha definito il mio dio e mio soltanto. Yahwn. Vede, dio è di tutti, sta a noi accettarlo nel cuore e coltivarne l’amore per sempre. Yahwn. Una volta scoperto, dio non abbandona mai nessuno.

Ok, ora conficcagli un paletto nel cuore. Perché non glielo conficchi tu? Perché non ho il pollice opponibile.

Ad un certo punto, sotto una cupola affrescata vorticosamente e delle teste d’angelo sporgenti, sono finita a parlare di dio. Con un prete. Farei prima a parlare di cucina con un’anoressica. Almeno siamo in piedi, evito il rischio di una parvenza di genuflessione anche da una diversa prospettiva o con un semplice CTRL – L.

Che ne ha fatto di dio? Se l’è mangiato il gatto, gli rispondo.

Avanti, signorina. Sia seria.

Sa che là fuori chiamare signorina una ragazza equivale a darle della battona?

Battona? Cos’è una battona?

La battona è una puttana. Una prostituta. Una bagascia. Una succhiacazzi a pagamento.

Signorina, la prego. Si ricordi che siamo in una chiesa.

Ha ragione, scusi. Una bagonda. Una escort. Una baldracca. Una Maddalena d’oggi.

Va bene. Ha reso perfettamente l’idea. Una donna dai facili costumi.

Già, una di quelle da Mestiere più antico del mondo. Ha presente, padre?

Sì, ho presente.

Ah. Bene. E non se ne vergogna?

Di cosa?

Di aver presente una puttana.

Oh, ma insomma. Non sia così provocatoria. Sa benissimo cosa intendo se dico di aver presente una prostituta.

Ah, lo so?

Sì, lo sa. Intendo dire che so cosa sia e cosa faccia, senza necessariamente averne conosciuto direttamente i favori.

Si sbrighi, allora.

Torniamo a parlare di Dio?

Guardi, tra dio e prostitute, preferirei continuare a parlare di prostitute. In linea teorica vado indubbiamente più d’accordo con loro. Almeno sono lavoratrici oneste e infaticabili. Il suo dio è piuttosto il capo di una multinazionale che macina soldi e anime a palate anche dopo aver dichiarato il fallimento.

Almeno sta ammettendo che ci sia. È già qualcosa. Arriverà un giorno in cui sapere che esista non le basterà, avrà bisogno di cercarlo e a quel punto mi auguro per lei di trovarlo quanto prima.

Ma scherza?

Certo che no. Me lo auguro con tutto il cuore. Ed è sincero nel dirlo, perciò c’è tanta pena.

Lei pensa davvero che un giorno potrei avere la voglia e il tempo di andare a cercare il suo dio?

Perché? È troppo impegnata?

Sì.

E da cosa?

Dalla vita.

Dalla vita?

Sì. Dalla vita. Sono troppo impegnata dalla vita. Ne ho una, è questa. È la mia. Il prima e il dopo non mi interessano. Mi preme il durante. E il durante è sottoposto a leggi irreversibili per cui va già quando lo si chiama. Ed è già tardi. Non ho tempo, padre. Non bastano i miei tre minuti per badare a rimettere l’anima chissà dove e chissà a chi. Per adesso è la mia e, fintanto che lo sarà, la nutrirò col solo dio che da donna sono in grado di conoscere.

E di che dio si tratta?

Dice chi sia quel dio?

Proprio quello. Chi è quel dio?

Quel dio sono io.

Interdizione davanti e scodinzolio esagerato sotto.

Sta per caso dicendo che lei è dio così come quel cane è il suo amico immaginario?

No. Io sono il mio dio, né il suo né di chiunque altro. A lei e a chiunque altro lascio il proprio e la possibilità di trovarlo dovunque vogliate. Ma le assicuro che non c’è bisogno di qualcosa a cui fare otto per mille favori. Basterebbe riflettere sulla vita e sul valore sommo da assumere nel frattempo. Il mio sono io, il resto è arredamento.

Capisco.

No. Non è vero. Lei mi guarda e davanti a sé vede una pazza che farnetica con amici immaginari e definibile a buon diritto maniacale e megalomane. Ma sarebbe un diritto buono solo in funzione  antiindividuale. E va bene così. Deve essere così. Non può essere altrimenti. Il suo valore è qui dentro, nell’ostia consacrata, nelle scritture e nelle proiezioni inverosimili o, per lo meno, momentaneamente inutili. Quelle che per lei sono verità ontologiche, per me sono storielle che, anche se avessi il tempo di leggere, non condizionerebbero il mio sonno. Perché su quello non ho alcun controllo, se non una parvenza di idea che non fa parte del mondo dei miei sensi e che quindi è nulla.

Non crede di essere un po’ troppo arrogante?

Perché mi preme la vita e mi disinteresso del resto?

Anche.

No, padre. Mi sentirei arrogante se sciorinassi supposizioni spacciandole per verità assolute. Se parlassi usando robaccia come Per sempre, Infinito, Tradimento, Esatto, Vero, Colpa, Assoluto. Sarei arrogante se, pur conoscendo il corso di una storia che ha tentato di perseguire quell’innaturale robaccia, non facessi niente per evitare che continui ad offendere la vita. È una cosa che da sé richiama a sé e in confronto il suo dio è una banale sottocategoria.

Sarà nelle mie preghiere, cara.

Con o senza tette?

Il suo amico immaginario ha appena fatto pipì sulla mia scarpa.

È un cane. Dove altro avrebbe dovuto farla?