«Non puoi capire cosa mi è successo»
«Tranquillo. Lo sai che sono di larghe vedute»
Quando esordisce con un “Non puoi capire cosa mi è successo”, S. finisce col raccontarmi la sua ultima indecorosa vicenda sessuale senza risparmiarmi i particolari. Sia che si tratti di donne che di uomini, le sue vicissitudini hanno sempre qualcosa di imprevisto o straordinario e conserva quello stesso sentimento di sorpresa fino a quando mi chiama per raccontarmi tutto. Non lo sento da tempo, oggi mi aspetto un resoconto oltremodo succulento.
«Non ci crederai»
Perché no? La mia profonda adorazione nei confronti di S. è legata alla velocità con cui è sempre saltato da un sentimento e da un letto ad altri mantenendo il suo candore anche in situazioni che qualcun altro vivrebbe in modo disdicevole, irraccontabile, lascivo. I suoi periodici aggiornamenti sugli ultimi nomi e sulle acrobazie appena collaudate, non hanno nulla di sconvolgente, al massimo alimentano il mio amòr per lui. Un mattino d’aprile mi chiamò in fibrillazione. Era ancora su di giri per certe cose successe la notte precedente. Ne aveva ricordi vaghi, ma, se si era svegliato a quell’ora per telefonarmi, era chiaro che l’esperienza fosse da comunicare con un codice rosso.
«Ma non ti era già successa qualcosa di simile?»
«Sì, ma quella volta le donne erano solo due» si era limitato a precisare.
S. ha un nome comune con cui non l’ho mai chiamato. La prima volta che l’ho incontrato era conciato in modo impressionantemente simile ad una rockstar e da quel momento per me aveva assunto il suo stesso nome.

«Credimi, Cate. Non puoi capire cosa mi è successo»
«Ora basta. Intanto dimmelo e poi vediamo se lo capisco. Mi stai facendo preoccupare,  come quella volta che sei tornato da Ibiza e ti disperavi perché …»
«Ho accolto il Signore dentro di me»
«… una ti aveva seguito fino in Italia per..»

 

EH?

 

Ah ah. Che burla. Vinci il premio “Promoter di suspense con effetto infarto”. Adesso però voglio il raccontino e non mi interessa quanto scostumato sia. L’importante è che non ci siano animali. Di quelle cose non ne voglio sapere, per il resto mi va bene tutto.
«Te l’avevo detto che non avresti capito»
Stiamo calmi. Mi siedo. Forse “il Signore” è una parola come un’altra per intendere un particolare acido, S. è ancora in trip e sta tentando di camuffarlo al telefono.
«Vuoi dire che l’esperienza è stata così mistica da avere effetti divini?»
Si mette a ridere ed è un suono strano, adulto, controllato, con una cadenza prestabilita e un ritmo oltre il quale S. ha deciso di non andare.
Interviene un silenzio di qualche secondo, poi lo sento inspirare e nello stesso istante mi scopro a pregare che non sia sul punto di dirmi Amèn.
«Una volta, a cena, tu dicesti che non credi che in te stessa»
Oddio, sta per dirmi Amèn.
«Ricordo» e in parte mento, perché l’occasione non la ricordo, ma riconosco la frase come mia.
«Davanti a me non dovrai più dire una cosa del genere, Cate» dice in modo fin troppo benevolente e categorico per non tradire una paternale.
Mi sta dicendo Amèn.
«Adesso non puoi capire. Ma confido che un giorno tu rinsavisca e offra a te stessa la possibilità di salvarti»
Sento puzza di evangelisti. Ripenso a quella volta che vidi una donna con le mani giunte e gli occhi chiusi ringraziare il Signore perché finalmente era rimasta incinta. Dopo anni di tentativi per fecondazione assistita. Ricordo che sperai che quel Signore di cui parlava la donna fosse il suo ginecologo, altrimenti non avrei potuto spiegarmi un ringraziamento così fervido. 
Gli dico ok, partiamo dall’inizio.
S. mi racconta che ha conosciuto gente splendida che gli ha parlato molto di Cristo, del brutto modo di intendere la religione negli ultimi tempi e di quanto per l’uomo il Signore abbia iniziato a rappresentare una sofferenza. Una cosa orribile, bla bla, si sono sbagliati tutti, bla bla, perché Cristo non è altro che amore, un amore infinito che ogni uomo deve accogliere dentro il suo cuore –e se scaccio l’immagine della sua mano sul suo petto in mezzo a un coro di angeli che canta Osanna, è solo perché so che gli evangelici non credono agli angeli–  per trovare un rimedio al mondo. Il mondo altro non è che Satana che ci tenta ogni giorno e..»
«Aspetta, aspetta. Cosa sarebbe il mondo?»
«Sì, mia cara Cate. Il mondo e le bruttezze della vita sono le tentazioni di Lucifero che vuole il nostro male. E se tu non scegli il Signore, Satana avrà vinto e la tua vita sarà un inferno»
Mi tocco, pagana, la tetta sinistra. Immaginare la mia vita un inferno più di quanto lo sia adesso è impossibile; prevederlo senza darmi altra scelta sapendo come me la sto passando, non è affatto carino. So bene che, pur di evangelizzare, non si bada a spese. Ciò non toglie che lui stia iniziando a starmi seriamente sul cazzo.
«Guarda me. Io soffrivo, non capivo perché vivere mi facesse così male. Adesso sto benissimo, perché so che non sono solo. Infatti ho ridotto gli psicofarmaci»
Penso alla cartina gialla degli Stati Uniti sul mio atlante e poi a com’era lui la prima volta che l’ho visto. È stato adeguatamente, integralmente americanizzato e a poco servirebbe fargli notare che curare una dipendenza creandosene un’altra non vuol dire mai eliminare la prima.
Credere di aver rimosso un problema senza accorgersi di averlo fatto ricorrendo ad un altro problema rientra nelle più comuni patologie depressive.
Cristo è in genere la tappa successiva allo Xanax.
Salirei volentieri in macchina ancora in pigiama per arrivare fino a casa sua e prenderlo a calci, se non fosse che non voglio turbarlo con quello che ho imparato nella mia lunga carriera di depressa proprio ora che S. dice di aver dimezzato i farmaci. 
Per lui il Signore è la salvezza. Per me non è altro che qualcosa che tiene i palermitani lontani dal traffico la domenica mattina.
«Lo so, lo so. Ora non puoi capire. Ma prima o poi lo farai. Tu sei così intelligente e presto Gesù chiamerà anche te»
Non vedo l’ora, ma se nel frattempo un evangelista loda la mia intelligenza mi sento automaticamente deficiente. Silenzio. Da diversi minuti guardo una vigorsol coperta di mozziconi attaccata alla parete del mio posacenere. 
«Come stai tu?» si sforza di sembrare interessato, ma la sua domanda suona come un prologo e non me la sento di essere evangelizzata alle 9 di mattina di un sabato qualsiasi. Ne approfitto per tentare di sviare e minimizzo con un
«Mah, è tempo di udienze. Combatto con i miei genitori che si scannano per un euro e un altro..»
«Vedi? Questo perché non hai ancora accolto Gesù dentro di te»
O perché sono nata da due stronzi?
Non vedo come Cristo possa avere a che fare con la separazione dei miei se non nel trasporto quasi ascetico con cui mio padre e mia madre si lanciano vicendevoli maledizioni giornalmente.
«Ah sì?»
«Sì, Cate. È così. Tu non capisci perché non hai ancora i mezzi per farlo –in effetti no, però ho una macchina con cui potrei venire a prenderti a calci subito– Ma guarda questa telefonata. Il fatto che tu mi abbia risposto alle 9 di sabato mattina è un segno»
Il motivo in realtà è un altro, più legato al gossip che al Signore, ma a quel punto non ho più tanta voglia di farglielo notare.
Mi sfugge tutto. A quest’ora doveva essere già arrivato alla descrizione fisica dei partecipanti all’orgia, invece mi parla di redenzione, di salvezza e psicofarmaci. Io volevo le zozzerie. Volevo sesso, droga, rock’n’roll e racconti scabrosi tipo “Minchia, mi sono inchiappettato questa mentre è arrivato quest’altro e ad un certo punto non si capiva più chi fosse Pinco e dove fosse andato a finire Pallo”.
«Gesù ti sta chiamando, Cate. Ti sta chiamando»
«Ok. Ma per adesso sono occupata. Digli che forse è il caso di sentirci un’altra volta, cristosanto»

Perché voglio che si sappia che il Signore qualche volta lo chiamo anch’io.