Salve. Io sono Caterina. Ma prima mi chiamavo Roberto.
No. Non sto scherzando. Quando ero piccola mi chiamavo così, o meglio: non ho mai avuto alcun interesse a chiamarmi da sola ed era ancora presto per le celebri disperazioni adolescenziali passate di fronte ad uno specchio a rimirarmi nel trucco sciolto, coi capelli arruffati per lo stress dell’ultima sbornia e a ripetere a voce alta il mio nome seguito dagli incitamenti di forza e coraggio tipici dei momenti che non vanno. Non ero dunque io a chiamarmi Roberto, ma gli altri.
Perché proprio Roberto, non lo so. Perché un nome maschile, posso immaginarlo. Fino a 13 anni, ovvero prima che potessi prendere coscienza della difficoltà di far valere la mia sessualità in un mondo di femminucce fedeli al motto petto in fuori e pancia in dentro, ho tenuto i capelli corti. Non corti alla femme fatale come Winona Rider, ma più alla qualsiasi comparsa che faceva la parte della deportata in The Shindler’s List. Non era una mia scelta. A quell’età ci si affida alle amorevoli cure materne, giusto? Ma oggi, a cuore libero e leggero, posso fieramente dire di non provare nessun rancore nei confronti della mia mamma.
Come potrei? Sarebbe disumano accusare una mamma di aver cresciuto una figlia con seri problemi di identità sessuale perché la obbligava ad andare dal barbiere, no? Potrei mai rimproverarla di egoismo solo perché mi costringeva a portare acconciature minimaliste da malata terminale in chemio? D’altronde aveva ottime ragioni: infatti, se i miei capelli superavano i 4 cm, mia madre sentiva caldo quando mi guardava, ecco. I miei capelli le facevano venir caldo. Quelle sbarazzine acconciature asimmetriche alla maschietto che adesso vanno tanto di moda, negli anni 80 non erano ancora contemplabili e le acconciature allora in auge presso i parrucchieri per donna erano le folte chiome ondulate con frangetta o quegli angelici caschetti boccolati da puttino. Io avevo i capelli come la cresta di un istrice incazzato. Ma certo nessuno potrebbe negare quanto la calura sia insopportabile.
La componente Roberto non sarebbe stata di per sé determinante se ai tempi non fosse stata legata ad altri fattori più incisivi. Si dà il caso che quand’ero piccola avessi un’innata predisposizione per gli sport, in particolare quelli maschili. La sempreverde “Da grande voglio fare la ballerina” era una frase che sentivo ripetere spesso alle amichette che, orgogliose e impettite, camminavano a paperella sui loro piedini piatti dagli alluci esagerati. Ma non la sentivo mia. Così già all’età di 6 anni ogni volta che qualcuno mi chiedeva cosa avrei voluto fare da grande, io rispondevo “L’archeologa”. Ed ecco correre tra le amiche di mia madre quegli sguardi imbarazzati che tradivano la paura di un mio futuro alla volta del lesbo,  prima di sforzarsi di aver capito male e riprovarci chiedendomi “E poi?” -come se nella vita fare l’archeologa non ti prendesse già troppo tempo. Spesso per non deludere le speranze e gli ebeti sorrisi di quelle gentili signore, in genere concludevo con orgoglio “E poi pure l’astrologa. Ma solo se c’ho tempo”.
“E la ballerina?”
“Le ballerine hanno i piedi piatti e non hanno tette” –e no, miei cari: Pamela Prati non è una ballerina.
“Ma tutte le bambine vogliono fare le ballerine!”
“Boh. Io faccio pallacanestro”.
Era vero. Ai tempi praticavo solo quello e non avrei potuto fare altro, soprattutto se quell’altro richiedeva un tutù rosa che s’appiccica al corpo tanto da poter contare ogni singolo pelo pubico e un prurito costante dovuto ad odiosissime calze di filanca che avrei sfilato puntualmente a forza di grattarmi le ginocchia.
Così già a 6 anni odiavo i collant, la danza, i tutù, giocavo a basket e mi chiamavano Roberto. Sapevo bene che di fatto ci fosse qualcosa di molto diverso tra me e i miei amichetti, ma non pensavo fosse così importante rivendicarlo. Voglio dire. Spesso era un vantaggio. Una reputazione da maschiaccio escludeva automaticamente la possibilità di far parte dei gruppetti di ragazzine che passavano pomeriggi interi di fronte Dolce forno Albert improvvisandosi perfette mogliettine, quando non era l’ora della poppata a Cicciobello o il momento del trucco collettivo in cui tutte quante si incipriavano come baldracche ante litteram dalle tonalità espressioniste. I miei hobbies erano altri e mi prendevano gran tempo e fatica. Oltre a collezionare videocassette di Esplorando il corpo umano e C’era una volta l’uomo, passavo i pomeriggi a traccheggiare con lunghi e sottili fili d’erba essiccati che usavo a guisa di cappi per le lucertole; un lavorio che richiedeva una gran pazienza nel momento dell’appostamento prima che scattasse lo studiatissimo agguato. Quando le lucertole iniziarono via via a scarseggiare nei paraggi, fu la volta del pallone con i miei amichetti e, sebbene l’unico ruolo a cui mi relegassero fosse quello di arbitro di uno strano gioco in cui lo scopo era quello di colpire proprio l’arbitro, io e i miei capelli ci sentivamo a nostro agio. Quando in casa iniziarono ad esaurirsi anche i cerotti, mio padre, dopo avermi invitata a praticare dei passatempi senza rischio di emorragia improvvisa, decise di mandarmi in una scuola privata per femminucce che sfoggiavano affascinanti uniformi e larghi sorrisi alle 3 maestre: una per le materie standard, una per la ginnastica e una per la musica! Fantastico. Sport e musica legittimi. incredibile. Ancora più incredibile il fatto che a 6 anni non conoscessi la differenza tra un normale essere umano e una suora. Con grande delusione, scoprii che non solo avrei dovuto sorbirmi una messa tutte le mattine, ma che avrei anche dovuto dossare ogni giorno, di pioggia o di sole che fosse, un cardigan di tweed, un girovita aderente e collant di lana; che la ginnastica prevista dalla maestra si risolveva in una corsetta intorno ad un campetto di cui ricordo le foglie che svolazzavano in autunno, e che le lezioni di musica erano solo ed esclusivamente lezioni di triangolo.
E per carità, lungi da me mettere in discussione l’unicità del tintinnio che esce da un pezzo di metallo piegato e l’angelica dolcezza del movimento con cui lo si percuote. Diciamo solo che non era quello che intendevo per “Lezioni di musica”, quindi tanto valeva animarle con sano sperimentalismo percussionistico sfruttando l’uniposca come bacchetta, la bibbia a mo’ di grancassa e i piedi del banco come indispensabile ride. Così, quando la suor-maestra ordinaria disse ai miei genitori che non fosse elegante  avere la calzamaglia sempre bucata all’altezza delle ginocchia, che non fosse gentile regalare lucertole alle compagnette o picchiarle, che non fosse cristiano addormentarsi nella cappella d’istituto durante l’ora della messa, né tantomeno lo fosse disturbare il coro facendo i controcanti a Simbolum, mio padre mi guardò, mesto e rassegnato, salutò le suore e mi portò via da lì. Forse in una scuola pubblica avrebbero ammesso le lucertole e tollerato delle ginocchia perennemente sbucciate. E così fu (fatta eccezione per le  lucertole che non vennero mai viste di buon occhio in realtà, nemmeno come elementi decorativi dei manufatti bricolage da preparare per la festa del papà).
Col tempo però le dimenticai, mi arresi al prurito dei miei collant, diedi una sfoltatina al mio bagaglio di insulti, mi limitai ad un tot di parolacce al giorno e smisi anche di picchiare chi mi chiamava Roberto.

Pe
rchè improvvisamente i miei capelli allungarono.
Altroché se allungarono.